Evidente da tempo, questa insofferenza è stata inasprita dalla congiuntura economica. La classe politica chiede ai suoi connazionali di stringere la cinghia, ma si limita a qualche modesto sacrificio. Non ha capito che non esistono soltanto i conti del bilancio statale. Esistono anche quelli della democrazia, vale a dire del rapporto fra gli eletti e gli elettori. Non ha capito che non esiste soltanto il mercato dei valori finanziari, dove gli Stati e le aziende devono dimostrare la loro serietà e credibilità. Esiste anche il mercato dei valori democratici, dove ogni uomo politico deve rendere conto dei voti ricevuti e provare la sua affidabilità.
Per raddrizzare il Paese non basta quindi una manovra finanziaria. Occorre anche una manovra democratica, vale a dire un pacchetto di misure che serva a spegnere i sentimenti di rabbia e disprezzo che molti italiani provano per i loro rappresentanti. Se il problema maggiore, come sembra, è quello del Parlamento, converrebbe cominciare, il più rapidamente possibile, dal numero dei parlamentari. In altre circostanze avrei preferito che il dimezzamento del Senato coincidesse con una più precisa definizione delle sue funzioni in uno Stato federale e quello della Camera con una migliore ripartizione della funzione normativa tra il governo e il Parlamento. Oggi, se la classe politica vuole dare un segno di attenzione per i malumori della società, le circostanze impongono misure più rapide e quindi un progetto di legge sottoscritto dal governo e da tutti quei settori della minoranza che sono pronti ad approvarlo. L’iniziativa avrebbe tre effetti positivi: darebbe una risposta al Paese; dimostrerebbe che la riforma della Costituzione è una materia su cui maggioranza e opposizione possono lavorare insieme; direbbe agli speculatori che la nave Italia non ha alcuna intenzione di andare a fondo.